Di Francesco Bonsaver, tratto da Area
Area ha ottenuto i dati ticinesi dei contagiati in base alla professione. «Metodologia errata, inutilizzabili» dice l’epidemiologa della Task Force.
La relazione contagi-lavoro è destinata a rimanere un buco nero nelle conoscenze scientifiche. In Svizzera, perché negli altri Paesi europei quei dati esistono e sono facilmente consultabili. Dopo mesi di lotta con l’autorità cantonale per entrare in possesso di quei dati, una volta ottenuti, si scopre che così come sono stati raccolti non hanno alcuna utilità scientifica.
Una speranza svanita e una fatica inutile. È il sentimento di chi vi scrive dopo mesi di “lotta” con l’autorità cantonale per ottenere le statistiche dei contagiati in base alle professioni. La doccia fredda è arrivata col giudizio tranciante di Nicola Low, professoressa di epidemiologia all’Istituto di medicina sociale e preventiva dell’Università di Berna e membro della Task Force federale Covid-19: «I dati ticinesi sono inutilizzabili».
Facciamo un passo indietro al mese di giugno, quando era arrivata la notizia che l’Ufficio del medico cantonale aveva iniziato a registrare i dati delle persone positive, aggiungendo oltre a età, sesso e residenza, anche la professione. Stabilire se vi siano eventuali categorie professionali più a rischio di altre nel contrarre il virus, è una cosa logica nella lotta preventiva alla sua propagazione. Infatti, lo si fa in tutta Europa e i dati sono a disposizione di ognuno. Permette inoltre di evitare speculazioni delle associazioni padronali come viste in Svizzera negli ultimi mesi, del tipo «da noi nessuno si ammala, per cui dobbiamo restare aperti».
A giugno i contagi, fortunatamente, erano in netto calo. Troppo pochi per essere significativi, aveva risposto l’Ufficio del medico cantonale, negandoci l’accesso ma garantendo che qualora i contagi fossero malauguratamente ripresi, ci avrebbero informati. A ottobre purtroppo la seconda ondata è arrivata, mentre l’accesso ai dati continuava a essere negato.
Abbiamo dunque avviato una vertenza legale con le autorità cantonali sulla base della legge trasparenza, risultata poi vittoriosa a metà febbraio. Pur non essendo degli eminenti epidemiologi come la professoressa Low, dalla prima occhiata avevamo intuito che i dati raccolti dal Ticino avessero ben poche utilità. Invece di registrare le professioni, l’autorità cantonale le ha catalogate in settori economici: primario, secondario e terziario. Potrete comunque farvi un’idea, leggendoli qui.
La nostra delusione è stata condivisa anche dai membri della Task Force, che si erano subito dimostrati molto ansiosi di vedere le statistiche ticinesi sulle professioni. «I dati che le sono stati forniti dal Cantone, non hanno nessuna utilità per le misure preventive» ha risposto l’epidemiologa Low. Ma voi della Task Force, avete mai visto dei dati sulle professioni? «A livello nazionale, mai. Sapevamo che in base alle disposizioni federali sul Contact tracing, ogni cantone aveva avviato una sua raccolta dati. Abbiamo quindi inviato ai Cantoni una metodologia minima comune, utile ai fini statistici scientifici. I Cantoni avevano risposto positivamente, ma quei dati non sono mai arrivati all’Ufficio federale della sanità pubblica. I dati li leggiamo sui media. La stampa ha molte più informazioni di noi» risponde l’epidemiologa della Task Force. Forse certa stampa, ma non quella che ha per scelta editoriale di raccontare i fatti partendo dal punto di vista dei lavoratori. Tant’è.
Eppure una raccolta su contagi e professioni è scientificamente utile per tentare di contenere il virus. «L’aspetto professionale è importante ai fini della lotta alla propagazione del virus. Personalmente, sono fortunata, potendo lavorare in modalità telelavoro da casa. Il rischio di contagiarmi è basso. Chi lavora nella costruzione, ad esempio, è obbligato ad andare sul cantiere, correndo dei rischi maggiori di contrarre il virus. È un’ineguaglianza sociale che si può ridurre investigando meglio quali siano i reali potenziali rischi a seconda dei mestieri e le misure possibili per attenuarli». Si dice sovente che sia più facile ammalarsi sul posto di lavoro durante le pause, perché i dipendenti allentano le precauzioni. È vero? «Sì, è una possibilità. Per verificarla, va investigata con degli studi». Non esistono degli studi specifici? «In Svizzera no, ma non ho visto molti studi su questi aspetti nella letteratura scientifica mondiale».
Cosa può dirci dei registri sui contagi legati alla professione negli altri Paesi? «Conosco bene l’esempio inglese, dove il sistema della sanità pubblica ha un’ottima metodologia – spiega la professoressa Low –. Contabilizzano i test positivi e negativi delle varie professioni, con cadenza regolare a campione. Ad esempio, sono in grado di stabilire se i docenti siano più esposti al rischio di contrarre il virus dei medici, attuando delle misure preventive specifiche».
L’epidemiologo Marcel Salathé ha motivato la sua recente uscita dalla Task Force ritenendo che l’amministrazione federale abbia “due decenni di ritardo” nell’uso delle tecnologie moderne. A suo avviso, la Svizzera naviga “alla cieca” in materia di dati. «È vero, ma solo in parte» commenta Low. «Il problema è la mancanza di volontà di raccogliere i dati. Per noi, sarebbe molto utile avere una fotografia nazionale, frutto della condivisione dei dati cantonali. I Cantoni invece la considerano uno spreco di energie. E se gli organismi preposti non lo vogliono fare perché non ne vedono la necessità, non c’è digitalizzazione che tenga» conclude Low.