Di Claudio Carrer, tratto da Area

La Commissione degli Stati sferra un nuovo attacco ai diritti pensionistici delle donne. I sindacati lanciano un appello: 300.000 firme in una settimana.

«Lo sapeva che ancora oggi le donne ricevono un terzo in meno di rendita di vecchiaia rispetto agli uomini? Sono le donne ad assumersi gran parte del lavoro di accudimento, di cura e assistenza, ma questo lavoro non viene praticamente preso in considerazione nel calcolo delle rendite. Pur lavorando una vita intera, spesso le donne arrivano alla pensione con rendite insufficienti. È vergognoso!».

Si apre così, con un interrogativo sarcastico, con un’amara constatazione e con parole di rabbia, l’Appello urgente che centinaia di migliaia di donne e di uomini stanno trasmettendo in questi giorni ai 46 Consiglieri agli Stati, affacendati con la riforma dell’AVS, nell’ambito del progetto cosiddetto Avs 21.Un appello, che in pochi giorni ha già ottenuto quasi 310mila sottoscrizioni, a fare «marcia indietro» rispetto alle recenti decisioni della sua Commissione della sicurezza sociale e della sanità che vanno a colpire pesantemente le donne.

Oltre a confermare l’innalzamento da 64 a 65 anni della loro età pensionabile, che da solo comporta la perdita di ben 1.200 franchi all’anno, la commissione ha ulteriormente indebolito le (già largamente insufficienti) misure di compensazione previste dal progetto del Consiglio federale a favore della generazione che raggiungerà l’età della pensione negli anni successivi all’entrata in vigore della riforma (prevedibilmente nel 2024): in particolare con una riduzione del periodo transitorio da 9 a 6 anni e portando a 63 anni (contro i 62 proposti dal Governo) l’età a partire dalla quale può essere riscossa la pensione anticipata. Pensione anticipata che peraltro comporta una sostanziale diminuzione della rendita.

«Se la cosa non fosse così grave, si potrebbe parlare di farsa», commenta in una presa di posizione l’Unione sindacale svizzera (Uss), definendo «surreali», «indecenti» e «un’ammissione di disprezzo in materia di politica di uguaglianza» le modifiche proposte dalla Commissione degli Stati e dalla sua maggioranza di destra. Con questo modello le donne, in particolare quelle con i redditi più bassi, subiscono infatti una triplice penalizzazione: l’età ordinaria di pensionamento viene aumentata da 64 a 65 anni, la pensione anticipata è prevista al più presto dai 63 anni (oggi 62) e le rendite subiscono un’erosione. Una prospettiva inaccettabile tenuto conto che i salari delle donne (e di riflesso le loro rendite pensionistiche) sono già più bassi di quelli degli uomini. È insomma una riforma dell’Avs interamente a spese delle donne quella che sta prendendo forma al Consiglio degli Stati, il cui plenum ne dibatterà nella sessione primaverile che si apre il 1° marzo prossimo.

È in vista di questo appuntamento che è stato lanciato l’appello sindacale, con cui si segnala l’indisponibilità delle donne a farsi carico del risanamento dei conti dell’Avs e si invitano i senatori a riparare all’«affronto» fatto dalla Commissione. Le rivendicazioni sono chiare: per garantire la sicurezza economica al termine della vita lavorativa le rendite delle donne vanno aumentate e non diminuite e l’età di pensionamento non va innalzata perché le donne subiscono discriminazioni durante tutta la vita professionale. Insomma, l’Avs va rafforzata, non smantellata, gridano gli oltre 310.000 firmatari dell’Appello, che se messi in fila uno accanto all’altro andrebbero a formare una catena umana più lunga della distanza tra Davos e Ginevra. Presto sapremo se i senatori avranno saputo ascoltare.