Di Federica Bassi, tratto da Area
Il Ticino è tra le regioni europee con il più alto rischio di povertà. Oltre alle storture ormai evidenti del modello neoliberista, il nostro cantone paga anche difetti strutturali e vede formarsi nuove categorie di poveri. Intervista all’economista Christian Marazzi.
Cosa accomuna il Ticino alle colonie francesi d’oltremare, come La Réunion e il caraibico arcipelago della Guadalupa? Non certo la sabbia bianca o la barriera corallina, ma piuttosto il rischio di povertà relativa e di esclusione sociale. L’Ufficio di Statistica dell’Unione Europea, ogni anno, pubblica i dati in tal senso suddivisi per singole regioni – includendovi, quindi, anche le amministrazioni coloniali ben distanti dal Continente –, dai quali risulta che l’entità Ticino, sulle circa 250 prese in considerazione, è la 19esima peggiore. Anche se le comparazioni con regioni così lontane sono ovviamente pericolose, col rischio di risultare improprie, i risultati dello studio forniscono comunque elementi a sufficienza per inquietarsi: il 35% dei ticinesi è a rischio di povertà relativa o di esclusione sociale (cioè a rischio di grave deprivazione materiale – impossibilitati quindi a pagare l’affitto o le fatture, ad affrontare una spesa imprevista, a concedersi una vacanza o a mangiare carne due volte a settimana – o che vivono in famiglie con un’intensità di lavoro molto bassa). Il solo rischio di povertà relativa riguarda invece il 27% dei ticinesi.
VECCHI PROBLEMI, NUOVI POVERI
Al di là della retorica imperante che tende ad attribuire le cause dei peggiori mali a questioni contingenti (“la pandemia, le tensioni internazionali,…”), con l’economista Christian Marazzi abbiamo cercato di partire dalle cause strutturali che ci hanno portati, oggi, ad essere un puntino color blu oltremare al centro d’Europa: «Dal secondo dopoguerra abbiamo avuto un rapporto di dipendenza rispetto al resto della Svizzera, simile ai rapporti di sottosviluppo che vediamo nel resto del mondo. Questa logica dipendentista ha fatto sì che svendessimo, per esempio, parti importanti del nostro territorio accrescendo la rendita di intermediari e notabili locali. In questo contesto, le fragilità strutturali non solo si sono consolidate, ma si sono accumulate: dagli anni ’80 sono nate nuove forme di povertà generate dai cambiamenti del mercato e del mondo del lavoro. Quest’ultimo si è precarizzato, sono diminuiti i posti a tempo indeterminato con l’aumento, invece, del lavoro interinale e part-time. Abbiamo, inoltre, la più alta percentuale di lavoratori indipendenti (il 17%, rispetto alla media nazionale del 14%), che è un tipo di lavoro – da non confondere con quello della categoria dei medici, degli avvocati o degli architetti – generato dai processi di riorganizzazione aziendale, come per esempio l’esternalizzazione. Sono segnali della frammentazione del lavoro – fenomeno manifestatosi ovunque, in Europa – con la specificità però locale, e cioè di essere un cantone che ha sempre fatto leva sul bacino di lavoro a buon mercato del frontalierato. Ciò ha permesso di risparmiare sulle trasformazioni produttive, specie sull’innovazione, con le conseguenze che sappiamo sul livello dei salari, a fronte di un costo della vita che però non si distanzia troppo dal resto della Svizzera e che rende più debole il potere d’acquisto di una fetta importante di popolazione».
Al contesto che vede, quindi, uno zoccolo duro e strutturale di poveri formato da famiglie monoparentali, working poor, donne, anziani e giovani vanno ad aggiungersi – per l’economista – anche i lavoratori indipendenti; tutte categorie a cui il sistema economico odierno ticinese, culminato nel 1998 con la codifica del manifesto neoliberista “‘Ticino 2015. Libro bianco sullo sviluppo economico cantonale nello scenario della globalizzazione”, non ha saputo dare risposte: «Il Libro Bianco rappresenta, in forma quasi caricaturale, una svolta – direi anche una sorta di rivoluzione dall’alto – di tipo neoliberista, impersonata da Marina Masoni. Si respirava da tempo questo nuovo spirito del tempo avviato negli Stati Uniti e in Inghilterra da Reagan e dalla Thatcher e che aveva i suoi assi d’azione nelle politiche di sgravi fiscali sulle fasce ricche, in modo tale da – come disse un consulente di Bush padre – “affamare la bestia”, lo Stato, e cioè ridurre le entrate fiscali in modo da costringere la classe politica a tagliare la spesa sociale e la spesa pubblica. E così è stato, in nome della promessa che l’aumento del reddito e della ricchezza disponibile indotta da questi sgravi fiscali sarebbe sgocciolata verso il basso e verso l’economia reale. Questo non è accaduto, né qui né in nessuno dei posti in cui questo modello è stato sperimentato: la ricchezza resta in alto e finisce perlopiù nei mercati finanziari, dove crea altra ricchezza che resta ai ricchi, aumentando le disuguaglianze. Ed è esattamente ciò che è successo da noi, e che stiamo sperimentando oggi, con esiti a dir poco inquietanti per la nostra società».
UNA POLITICA SENZA SOLUZIONI
Oltre al Ticino, però, anche il resto della ricca Svizzera vede il tasso di rischio di povertà relativa ed emarginazione sociale non scendere sotto il 15% – nemmeno nelle regioni storicamente più prospere come la Svizzera centrale e orientale –, con picchi del 20% nella Svizzera occidentale. E benché il modello fin qui analizzato abbia dimostrato tutte le sue lacune, alternative e soluzioni tardano ad essere discusse, in un contesto che tuttavia lo richiederà sempre di più: «Credo che la nostra classe politica sia ossessionata da una sensibilità e da una visione fiscale, e non reale. È fortemente ideologica e va sempre nella direzione dell’attrattività fiscale e della lotta al disavanzo. È una classe politica che non vuole affrontare le cause della nostra fragilità socioeconomica, e che perciò si accanisce sugli effetti di questi fattori strutturali per tenere vivo un conflitto interpartitico tale da legittimare l’esistenza di se stessa. L’opacità indotta dalla crisi in atto dell’Occidente, in una fase che potremmo definire “non più e non ancora”, il punto debole è la nostra moneta rifugio che potrebbe essere destinazione di molte incertezze, provocando l’aumento dei costi d’esportazione. Penso si possa prevedere un ulteriore giro di vite per quanto riguarda il costo del lavoro, e quindi per i i salari, e quindi per il potere d’acquisto. Questo non gioverà alla lotta contro la povertà, sempre che qualcuno abbia voglia di farla».